lunedì 2 luglio 2012

Strade di città


È difficile raccontare qualcosa di sé stessi quando, in fondo, non si ha nulla da dire. Gente che vive ingiustamente, altri che muoiono senza nessuna colpa. Una sensazione di profondo squilibrio con se stesso è quella che prova in questo momento, come anche durante il resto della sua vita. Mai un giorno che si sia trovato in pace con il suo animo. Anzi, forse aveva vissuto momenti belli, ma ricordarli era decisamente faticoso, perciò ci rinuncia. Si accorge di essere andato troppo lontano con i suoi pensieri, adesso deve solamente fare ciò che fa tutti i santi giorni da 5 anni a questa parte, ovvero continuare ad accelerare e a percorrere la corsia preferenziale dei taxi per portare le persone a destinazione. Poi avrebbe aspettato in silenzio la chiamata di un nuovo cliente e quindi sarebbe andato a prenderlo. Ormai è diventato noioso e monotono il suo lavoro. In compenso però conosce tutte le strade della città. Già, le ha girate proprio tutte, non c'è più un angolo che non conosca o che non abbia almeno già visto e che automaticamente pensa di conoscere. Se avesse qualcuno con cui condividere la città, con cui uscire la sera, con cui divertirsi, allora avrebbe veramente un senso conoscere la città intera. Quant'è che non esce con una ragazza? Due, tre anni? Forse anche di più. Dopo che si è lasciato ha rinunciato a ogni contatto con un'altra donna. Ha cominciato a trascurarsi, a lasciarsi andare. Come se poi una bottiglia potesse risolvere il suo problema. Già, il suo problema.
Al momento l'unico suo problema è arrivare per le dieci e trenta all'aeroporto. Maledetti turisti tedeschi. Controlla nello specchietto il suo passeggero, accorgendosi solo adesso che è una passeggera, con la a. Carina, tipicamente bionda. Occhi chiari, da spirito. Il suo modo di muoversi per cercare il cellulare – probabilmente perché le è arrivato un messaggio – è delicato, leggero. Il viso scavato da occhiaie di sonno rivela una notte insonne passata con qualcuno. Chissà cosa avrà fatto. “Anzi, sarebbe meglio pensare a cosa non ha fatto ieri sera, l'elenco sarà meno lungo” e mentre formula questo pensiero gli scappa un sorriso. La passeggera lo vede, anche lei sorride, mostra i suoi denti perfettamente bianchi, perfettamente allineati, perfettamente perfetti. Quasi a voler ricalcare in pieno i pregiudizi sulla perfezione tedesca. Mentre gira in Via Pertini si ricorda di una cosa importantissima. E cioè che è la prima volta che sorride da almeno due mesi. Pensa al fatto che si dovrebbe ridere almeno 15 minuti al giorno, ma se non si può condividere, una risata è inutile, è solo fiato sprecato. Come gridare controvento. Semaforo rosso. Dieci e venti.
“Mi sa che perderai l'aereo” pensa. Forse dentro di sé lo spera anche. Per passare più tempo con lei, quasi fosse una cura.
«Parli italiano?».
La ragazza non si aspettava una domanda. Nemmeno lui.
«Io parlo italiano non bene..» è insicura, non sa se l'ha detto bene.
“Adesso cosa le dico? Ma come mi sarà saltato in mente di parlare..” è come terrorizzato, cerca di contenersi solo perché deve portare l'auto a destinazione e deve cercare di portarcela integra.
«Non preoccuparti, lo parli più che bene» sorridono tutti e due «Che cosa sei venuta a fare qui in Italia?» scandisce le parole per farsi capire.
«Ieri sera ho festa con...Freunden...»
«Amici?» prova a tradurre lui.
«Sì, amici!» sorride per aver trovato la parola.
Lui annuisce. Ore dieci e venticinque.
«A che ora hai l'aereo?»
«Aereo a dieci e...Scheiße...» nuovamente non riesce a ricordare come si dice in italiano, allora si sporge in avanti verso il sedile del guidatore e piazza davanti ai suoi occhi quattro dita della mano.
Mente lei sorride, lui butta uno sguardo alla mano. Gliene basta uno, anzi, metà, perché poi deve tornare a guardare la strada. Nota che con le dita indica il numero quattro, che quindi sta per dieci e quaranta, ma si sofferma più a pensare ai dettagli. Quella mano, è bellissima. Le dita magre ma non troppo, abbastanza lunghe, delicate, di una carnagione candida, quasi bianca, le unghie curate, color rosa chiaro e...e quando si accorge di ciò che sta facendo ci rimane pietrificato. Sta avendo un pensiero su di lei, un'immagine erotica, di loro due nel letto che si uniscono, che si toccano. Deve assolutamente distogliere l'attenzione da questi pensieri. Guarda nello specchietto il volto di lei. “È inutile, tanto tra qualche minuto già non esisterà più”.
«Quindi dieci e quaranta?» fa anche lui il gesto del quattro con la mano.
«Sì!» annuisce con un sorriso.
«Allora siamo in anticipo.»
Fa una curva per immettersi nel parcheggio dell'aeroporto, si ferma, scende, apre la portiera alla ragazza, apre il portabagagli, tira fuori la valigia e la poggia a terra.
«Spero di rivederti!» le dice, sorridendo.
«Anche io spero rivedere, tu essere sehr sympathysch!» mostra ancora il suo sorriso splendido.
Non conosce il tedesco, ma è certo che stesse per “molto simpatico”.«Ciao, buon viaggio!»
«Auf Wiedersehen
Afferra la valigia, e il rumore dell'attrito delle ruote di plastica con l'asfalto offusca tutto il resto.
Così com'era arrivata, all'improvviso, già è andata via. Come un lampo.

Cosa voleva che succedesse, che lei lanciasse via il bagaglio e che lo baciasse lì, all'improvviso? No, quello esiste solamente nei romanzi rosa o nei film d'amore, al massimo. Alla fine è andata proprio come si aspettava. Lei se n'è andata, non esiste più. Ma questo non è vero. Lei esiste ancora. Esiste dentro, nel profondo. Negli occhi, per ricordarti che l'hai vista. Nella testa, per ricordarti che l'hai pensata. Nello stomaco, per ricordarti che ci sei stato male. Nel cuore, per ricordarti che non era per semplice sesso. Perché l'amore rimane sospeso, immobile, si avvinghia ai giorni, ai mesi, agli anni che hai passato con lei, per non lasciarli più. E con il tempo, diverrà immortale, marchiato a fuoco nella tua carne, e non ti abbandonerà mai. L'amerai per sempre.

È ancora lì, all'aeroporto, sta aspettando un nuovo cliente. Ancora non ha ricevuto nessuna chiamata, perciò rimane lì dov'è, attende un nuovo turista in visita, o qualcuno che torna da un viaggio, o chissà chi altro. Lo aspetta col sorriso sulle labbra, lo aspetta con ansia. Lo aspetta per poter condividere, finalmente, con lui o lei che sia, le innumerevoli strade di questa meravigliosa città.

lunedì 25 giugno 2012

Senza Titolo



<<Io e papà stiamo uscendo, andiamo a fare la spesa! Vuoi venire?>>
<<No mà, non voglio venire!>>
<<Va bene, allora rimani da solo a casa?>>
<<Sì mà, non ci sono problemi..>>
<<Torniamo tra più o meno due ore..fammi trovare l'acqua della pasta messa e la tavola apparecchiata!>>
<<Sì mà, ho capito!>>
Si stava già figurando davanti a sé l'idea di due ore di musica a palla, videogiochi e poi..poi avrebbe affrontato la madre per spiegargli che stava appena per mettere l'acqua sul fuoco quando loro sono tornati, o comunque una scusa abbastanza credibile per evitare di fare quello che gli era stato detto.
Sì, sarebbe andata così.
<<Ciao, a dopo>>. Il rumore meccanico della maniglia portò via con sé il suono della vita.

Silenzio, fastidiosissimo silenzio. Si chiese come non avesse potuto accenderlo già prima, lo stereo che aveva in camera. Avrebbe risparmiato tempo, non avrebbe dovuto attendere così tanto prima di poter riempire il vuoto che si era formato in casa. Adesso aspettava che scomparisse la scritta “hello” dallo schermino a led, ma sapeva anche che dopo quella brutta botta che aveva preso, i tempi di caricamento dello stereo si erano allungati in maniera improponibile. Il silenzio non era stato mai così ansiosamente vuoto. Passò il tempo a decidere quale cd mettere, ovvero se buttarsi sui Guns N' Roses oppure sui Led Zeppelin. Capì che non avrebbe mai preso una decisione, perciò si affidò alla sorte. Chiuse gli occhi e ne toccò uno.

La chitarra era inconfondibile, in quell'assolo. I Guns, come lui semplicemente abbreviava, erano da sempre il suo gruppo rock preferito.
Ma stavolta era diverso. C'era qualcosa che sporcava la purezza di quell'assolo di chitarra. Era come se si fossero aggiunti, impercettibili rispetto al volume della canzone, dei suoni. Suoni leggeri, teneri, infantili. Il volume di questi suoni era terribilmente basso, ma il suo orecchio riusciva a percepirli chiaramente. Abbassò violentemente il volume, sentì subito il contrasto tra la musica assordante e il silenzio che era piombato, tanto che dovette stringere i denti. Un carillon, anzi, una ninnananna. Passò per la sua mente l'immagine di un suo vecchio peluche. Sarà stato anche brutto, infeltrito, strappato sulla cucitura delle orecchie, ma era il suo peluche preferito. Aveva ricamato sulla zampa un cerchietto rosso con scritto “Premi qui”. Ricordò straordinariamente bene il suono che emetteva, e lo confrontò con quello che stava sentendo adesso. Simili, ma non uguali.
Tornò a pensare da dove potesse provenire il suono. Lasciò la sua stanza per entrare in corridoio. Gli pareva enorme. In fondo al corridoio, al lato opposto della casa, gli si parò la porta del bagno. Si domandò se davvero le sue orecchie non si stessero confondendo. Ci pensò davvero tanto, prima di capire che le sue orecchie ci sentivano fin troppo bene.
Aveva paura di avvicinarsi solamente. La sua immaginazione ormai aveva già proiettato nella sua mente un immagine vivida e chiara, quasi la toccava con mano. Abbandonò con tutte le sue forze la possibilità che veramente si potesse celare qualcosa di così sconvolgente quanto lui pensava. Ma aveva come un presentimento. Una sensazione che non c'era negli attimi in cui rimaneva fermo e che gli si presentava davanti nel momento in cui accennava un passo in avanti verso quella temibile porta. Pensò ai suoi genitori. Pensò a suo fratello. Pensò alla ragazza che amava, che però, come il più delle volte succede tra ragazzi, non ricambiava l'amore. Pensò alla vita che avrebbe potuto vivere, al lavoro che avrebbe potuto fare, ai figli che un giorno avrebbe avuto, alla possibilità di diventare nonno e di vivere una vecchiaia felice. Non se ne era accorto ma ormai la sua mano stringeva completamente e saldamente la maniglia della porta. Il contatto era molto freddo, la maniglia dorata, vecchia e consumata sarebbe stata forse la penultima cosa che avrebbe visto nella sua vita. La melodia suonava, e risuonava, e risuonava..come una nenia infinita che lo avrebbe accompagnato ad una inevitabile fine. Il sapore di sangue che riempiva la sua bocca c'era, ed aumentava l'illusione di una morte violenta e cruenta. Si chiese cosa sarebbe successo nell'aldilà. Fu il suo ultimo pensiero prima di aprire la porta.


Niente. Assolutamente niente. Il bagno era lì, intatto, splendente come l'aveva lasciato sua madre.
Scoprire che il niente l'aveva preoccupato lo faceva sentire completamente vuoto. Rise sulla figuraccia che aveva fatto con se stesso. “Cagasotto che non sei altro” si ripeteva.
Tornò nella sua stanza mentre la dolce melodia suonava ancora, come fosse l'unico suono di vita rimasto sulla Terra. Si recò davanti alla tv, impugnò il joystick e iniziò a giocare alla console, come si era prefissato di fare.
Adesso però gli era passata tutta la voglia. Sentiva il bisogno di dormire, quasi che la fatica di aprire quella porta avesse risucchiato completamente la sua vitalità e la sua voglia di fare.
Si posizionò disteso sul letto, abbandonandosi alla nenia infantile, sperando che gli conciliasse il sonno. Tanta era la stanchezza che si era dimenticato di spegnere lo stereo. Non ci fece caso.
Aveva un saporaccio in bocca, voleva sputare, ma non aveva la forza necessaria nemmeno a contrarre le labbra per farlo.
Non conosceva le note della musichetta che continuava a risuonare, ma era quasi sicuro che stesse per avvicinarsi l'ultima nota. “Se c'è una ninnananna, ci sarà un bambino assonnato. Vorrà dire che finalmente il bambino dormirà” pensò.
Più si avvicinava la fatidica ultima nota, più socchiudeva gli occhi. Più andava avanti, più le forze lo abbandonavano. Avrebbe dormito, si sarebbe svegliato tardissimo, avrebbe discusso con sua madre anche in quel giorno di festa. Non poteva fare altrimenti. Ultima nota. L'aveva riconosciuta. Un sol. Chiuse gli occhi.

1 ora e 44 minuti dopo

Nuovamente quel rumore meccanico. Uno scatto e la porta si aprì. I genitori erano tornati.